Parimu Gibbèrto.

Ciao papà.

N’abbracciu russu russu.

Ciao papà, si venutu agliu munnu a Subbjàcu -ncima agliu “Còlle”- agli cuàttro de màggiu 1944, dagl’amore de nonno Fernando e nonna Bittina (Lollobrigida).

Si rétornatu dagliu Patr’Etèrno -nbracciu a Gesùne, e mmàni alla madre nostra Maria Santissima- agli 25 de ottúru 2012.

Mi icii già da reazzittu, che écchi attèra stimo a fàne na vacanza, e, tuttu chéllo che facimo de bono écchi, ce lo purtimo n’céo. Tinii raggió. Prèca pe niari papà, macari nzunu a Donnazzarèno. Chisane che staragli a fane, non te mette ncapu de ìne da San Pietro e ice “stéo a pénzà”…

Grazie papà, pe chéllo che ci si dunatu, -rentro e fòri a ’lla famiglia- a tutti e de còre.

Ciao, n’abbracciu russu russu.

figlitu Fernando

agli 26 de otturu dumilaeduici

 

frasi tipiche de papà n’subbjacciànu:

“la pianta se piéca da piccirélla!”

“la ficora mena ju ficurigliu!”

“… stéo a pénzà…”

“Simo sèrvi inutili” (Lc 17, 7-10)

la speata anni 70 Corsa podistica in salita, con partenza da Subiaco a Monte Livata 12 km circa (parimu Gilberto Ferzioli, con il n.96 Paolo Appodia)

 

Papà Gilbèrto Ferzioli. L’arrivo della pizza durante la donazione di sangue Donatori Banca del sangue Subiaco grazie alla collaborazione con l’ospedale Bambin Gesù. Subiaco Sala Braschi 25 aprile 2011.
L’intuizione della Banca del Sangue…era il lontano 1983.
http://www.acsubiaco.it/02bancadelsangue/01chisiamo/chisiamo.htm
 

08-12-2000 banca del sangue Subiaco con l’equipe del bambin Gesù

 
 

 

 

 

 

La preghiera, che papà Gibbèrto fece scrìe -pe ju telefono amicu- a Egidio Trastulli (non vedente -ma vedeva e sentiva Gesù con il cuore, molto più di noi…).

Una preghiera che papà amava tantissimo.

 

Fratello carissimo,

che vivi nella solitudine,

nella malattia e nelle preoccupazioni,

non sfiduciarti.

Gesù ha detto: chi semina con

le lacrime raccoglie con gioia.

Non scoraggiarti perché la sofferenza

è Amore; Cristo Gesù ne è stato

il primo e unico testimonio.

Nei momenti di sconforto

e di smarrimento rivolgiti a Maria,

Essa, sensibilissima, ti ascolterà,

ti sarà vicino e ti stenderà la mano

per condurti nel giusto cammino

con serenità.

Subiaco, 5 maggio 1996

Egidio Trastulli

Agli amici di “telefono amico”.

(non vedente –ma cuàntu vetéa pià de niàri…-)

TELEFONO AMICO 0774-822438

rassegna stampa di telefono amico tuttu coménza da nu stéo a pénza… comme se potaria fàne pe aiutà chi non se lla passa bè? era il 15 gennaio 1996.

http://www.acsubiaco.it/03telefonoamico/telefonoamico.htm

SUBIACO – Caritas “Tante famiglie italiane cercano aiuto”

Aumenta la povertà a Subiaco, in soccorso arrivano Caritas e Telefono Amico. Se fino a qualche anno fa gli uffici della Caritas parrocchiale distribuivano viveri e abbigliamento agli extracomunitari, ora, sono anche i residenti italiani a chiederli. E non si tratta solo di persone anziane con una piccola pensione che non riescono a soddisfare le minime necessità ma arrivano, pure, coniugi con figli a carico che non riescono ad andare avanti. Il fenomeno esiste, dice don Mariano, il parroco di Subiaco – ci sono nuclei famigliari che per improvvise situazioni negative non riescono ad arrivare a fine mese anche se il capo famiglia  lavora e porta a casa il suo stipendio”. Gli uffici della Caritas  di Subiaco sono in piazza Sant’Andrea vicino all’omonima cattedrale e sono aperti due volte la settimana ma spesso distribuiscono i viveri anche gli altri giorni: “Diversifichiamo per facilitare il compito ai nostri addetti – spiega il parroco – in genere si distribuisce pasta, latte, formaggio olio che arriva dalla Caritas centrale, mentre il vestiario viene donato dai residenti”. Il problema non è solo il cibo e l’abbigliamento, per molti anche riuscire a sottoporsi ad una semplice analisi diventa un problema. Per sopperire a queste necessità opera da ben sedici anni l’associazione di volontariato, Telefono Amico che solo nel 2011 ha prestato servizio a ben 1644 persone, ad 898 è stata controllata la glicemia ad altri il colesterolo ed i trigliceridi, banali esami possibili solo grazie al volontariato di infermieri, medici e addetti vari. Oltre a questo impegno Telefono Amico va anche in ospedale all’ora dei pasti ad aiutare i non autosufficienti.
Antonio Scattoni
da Il Messaggero

      Postato 10th January 2012 da

Dall’amore per il prossimo

nasce il servizio presso l’ospedale Arnaldo Angelucci di Subiaco (Rm).

Una bellissima testimonianza dei volontari (angeli delle corsie dell’Ospedale di Subiaco)

L’amore supera ogni ostacolo e ci apre le porte del paradiso (anche qui sulla terra).

Grazie a tutti, siete meravigliosi

Fernando

“QUELLE LACRIME COSI’ PREZIOSE….” di Patrizia Pintus

pubblicata da Patrizia Pintus il 3 maggio 2012

Non potrei più fare a meno di andare, di incontrarli per due volte a settimana come volontaria tra le corsie in ospedale. “Loro” mi aspettano ed io so di trovarli lì, con le loro poche forze, e non posso deluderli.

Sono i malati, indicati con un numero di letto dal personale ospedaliero, ma con un nome ben preciso che voglio imparare sin da subito: sono per me nuove mamme, papà, nonni, fratelli, fragili e poveri con la loro malattia, ma ricchi ed intatti nella loro sensibilità.

Sono un Consulente familiare, alcuni lo sanno e si fidano di me. Quando arrivo li saluto con calore e li chiamo per nome, spalanco il mio sorriso in modo che lo vedano bene anche da lontano, mi faccio spazio per sedermi sul loro letto e gli chiedo di raccontarmi qualcosa…Mi offrono le mani, posso accarezzargli il viso, aggiustargli i capelli, sistemare le spalle e le coperte, guardare nel fondo dei loro occhi e leggere anche quello che a volte non riescono a dirmi, oppure è incomprensibile per i vari tubicini o mascherine che occupano il loro naso, o che ostruiscono la bocca per rifornirli di ossigeno. E quando vado via il loro sguardo mi segue fino alla porta, salutandomi appena con la mano, o solo con gli occhi ed un sorriso, che per me è infinito.

Cerco di arrivare nei reparti poco prima dell’ora di cena per imboccare chi non può mangiare da solo, ma poi mi trattengo un po’ per salutare alcuni e per parlare con loro.

Ho imparato che soprattutto molti dei più anziani sono “parcheggiati” lì dai propri familiari, oppure vengono da case di riposo per essere curati e spesso non ricevono visite.

Più che dargli da mangiare, il mio vero obiettivo è quello di stabilire un contatto con loro, una relazione “calda” che li faccia sentire amati, pensati, ascoltati.

A volte non vogliono mangiare, mi dicono che “tanto non guariranno….” Io insisto, incoraggio, accarezzo la loro fronte, provo a ricordargli che la malattia è solo un momento della loro vita, che poi passerà e li riporterà a svolgere le azioni quotidiane, a ritrovare i loro affetti, a rioccuparsi di sé stessi e di chi sta “fuori” ad attendere la loro guarigione.

Ma purtroppo alcuni sono consapevoli che “fuori” nessuno li aspetta ed arrivano persino a giustificare chi non si cura più di loro, dicendo che i loro familiari “sono poverini, lavorano, non hanno tempo!”. Me lo dicono sottovoce, ma in modo ripetitivo, quasi per confermarlo di più a sé stessi ed aggrapparsi ad una forma di difesa che li aiuti a soffrire di meno.

Io tento di fargli “allentare” il loro “muro”con il quale rifiutano la vita: “Dai, mangia almeno un po’ di minestra, ti aiuto io, fallo per te così guarisci, o fallo per me che ti voglio bene…” Ed è straordinario vedere come spesso, quasi magicamente, si riattivino in essi delle risorse impensate, una flebile volontà, l’accettazione a nutrirsi e ad accogliere la propria condizione.

Con qualche paziente lungo-degente sono riuscita a stabilire una vera e propria relazione di aiuto, una forma particolare di “consulenza”, una conoscenza che, dopo vari incontri, partendo dal nulla, da pochi sguardi, carezze, o strette di mano, è poi cresciuta attraverso la fiducia, la sintonizzazione affettiva, l’empatia, l’apertura del proprio vissuto, l’esternazione dei propri sentimenti ed emozioni….

Quante lacrime mi sono state regalate, quanti semplici sorrisi, quante paure di non farcela, quante confidenze di solitudini interiori e familiari, quanti racconti di fragilità vissute, quanti rancori o perdoni, quante rinascite o deboli speranze….

Ho accolto i loro sfoghi nel segreto del mio cuore, ho cercato di aiutare a comprendere, per trovare lo scopo di vivere il “qui e ora” e quanti abbracci hanno aggiunto un senso al “non detto”….

Ancora ripenso a Giulia, Valentina, Luigi, ormai angeli di cui custodisco le storie… ed Anna Maria, una dolcissima donna che mi ha aperto la sua anima sin da subito e che, dopo tante speranze e sofferenze, non ce l’ha fatta, ma non si è mai sentita abbandonata…e Giuseppe che invece, dopo aver lottato per tanti mesi, ha vinto il suo male ed ha trovato nei familiari e nei miei incontri quel calore necessario per non sentirsi da solo, per respirare quell’ossigeno affettivo che alimenta il cuore e la volontà, ed accelera la guarigione.

Ritengo importante che in un letto di ospedale il malato possa ricevere il sollievo di sentirsi visitato, accolto, compreso, per ricevere un supporto alle cure mediche, per accrescere la volontà di combattere la malattia, o a volte…per accettare con più serenità di percorrere l’inevitabile cammino verso la propria fine.

Ormai riesco anche a riconoscere chi è in fase terminale: le loro flebo non sono le “solite”, la bocca si riempie spesso di ferite, le braccia di macchie viola, sono pochi i momenti di veglia e la temperatura del corpo è molto fredda…

Con la mia presenza provo a compensare quel calore che il corpo non riesce più a produrre: posso fare molto poco, spesso le parole non servono più, ma è importante esserci, stare lì, per essere percepiti da loro come fossi il loro “guardiano”, per sentirsi protetti ed accompagnati, vegliati fino all’ultimo. I nostri sguardi continuano talvolta ad incontrarsi ugualmente e mi rivelano “mondi” di sensazioni ed emozioni….Dagli occhi che mi fissano escono ancora delle lacrime preziose, un dono che ricevo ogni volta commossa e grata. Quegli occhi mi “bucano” e parlano senza parole… Sembrano volersi attaccare alla mia vita per non perdere la propria; mi restano impressi ed è solo ciò che mi rimane quando purtroppo, al mio ritorno in reparto, vengo a scoprire “vuoto” il posto del letto che ormai non occupano più: hanno un nuovo posto in “cielo”, ma mi fa piacere pensare che ho potuto lenire un po’ di dolore o condurli ad avere meno paura di fare il “grande passo”. Forse questa è solo una mia illusione, o è proprio il mio bisogno di pensare così, per accettare e rendere più morbido “quel passaggio” anche per me.

La relazione d’aiuto non è rivolta solo al malato, ma parallelamente si può estendere anche ai loro familiari, fornendogli l’occasione per esternare la propria sofferenza, per sorreggere i dubbi, il sentirsi spesso impotenti, o a volte lacerati dal rimorso di non aver fatto abbastanza…

A volte chiedo al malato di ricordare e di raccontare a me e ai familiari qualcosa dei loro tempi migliori, per strappare qualche sorriso, ripercorrendo dei vissuti trascorsi e condividendoli insieme , come per confermare quanto la loro vita sia stata vissuta intensamente e per sentire quanta ne resti ancora.

Ma poi, quando nella narrazione emerge il ricordo di debolezze o dell’insorgere della malattia, allora i sorrisi si spengono e vedo i loro occhi cercarmi perché sentono perdere il “senso” dell’esperienza che stanno vivendo, il significato del loro dolore.

L’aiuto che si può dare anche ai familiari è quello di rimanere un solido punto di riferimento, di essere un ulteriore legame tra loro ed il malato, offrendo un ascolto genuino, discreto, la capacità di condivisione, di sostenere la speranza, di mantenere il contatto con la realtà, di accogliere il dolore e qualsiasi altra emozione sentano il bisogno di liberare, e cercare di trovare insieme una ragione al “qui e ora” che stanno vivendo, qualunque esso sia.

Ogni volta che esco dall’ospedale per tornare a casa, mi sento serena, più ricca di umanità, più vicina all’essenza dell’essere, più portata a discernere quello che più conta nella vita.

Ed il merito di tutto questo mi viene proprio da “loro”, da quei malati, dalle loro lacrime che talvolta mi regalano e non si vergognano di mostrarmi, rendendo più prezioso quel poco che posso fare e ripagandomi in abbondanza per quelle frazioni di tempo che trascorriamo insieme.

Sarei felice di far vivere questa mia esperienza anche ai miei figli, o a tanti giovani, per avvicinarli di più al senso della vita e della famiglia, alla realtà della sofferenza, al sacro rispetto che si deve ad ogni malato…Si arricchirebbero dell’affetto che ogni persona che soffre è capace di dare, riempiendo di amore chiunque si accosti a quel dolore che porta, e potrebbero ricevere come dono “quelle lacrime così preziose” !

Firmato: Patrizia Pintus, Consulente Familiare

 

 

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